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Lo strano mestiere: il direttore d'orchestra

In più di trent'anni della mia professione di orchestrale ho avuto la possibilità di conoscere una moltitudine di questi particolari lavoratori dello spettacolo, dai più celebrati a quelli che hanno trascorso la loro vita professionale inseguendo un successo che mai è arrivato, a volte per sfortuna, ma anche spesso per demerito.
Indubbiamente la figura del direttore d'orchestra rappresenta per il pubblico che frequenta le sale da concerto un personaggio affascinante: crea ammirazione così solo, sul podio e appare ai più indispensabile per il momento musicale che stanno vivendo.
Spesso, scherzando con alcuni direttori amici, esprimo ironicamente il concetto che l'orchestrale, in fondo, non è altro che un “operaio specializzato” e loro sono i veri “ingegneri” della musica.
Ma vi siete mai chiesti qual è, in realtà, il rapporto tra il direttore ed i professori d'orchestra?
È un rapporto non sempre facile, perché l'orchestrale (che pur sempre musicista è) sovente vede nel direttore la limitazione delle proprie idee musicali, e se la personalità che ha di fronte non lo convince e non lo appaga, non solo per gusto, ma soprattutto per livello di professionalità, ne nasce spesso una collaborazione sterile e a volte quasi assente.
Quando si parla dei direttori d'orchestra ecco che la mente corre al ricordo di quelli storici. Quelli che hanno dato inizio alla mitizzazione della professione: Toscanini, ad esempio, col suo carattere irruento e pieno di temperamento. Oltre che alle sue eccezionali qualità, egli ha legato la sua vita professionale alla leggenda, sapendo creare il personaggio ideale per rappresentare al meglio questa figura professionale.
Ma anche altri direttori di grande caratura hanno dato un forte contribuito, come i vari Furtwängler, Mitropoulos, Bruno Walter, Karajan, Bernstein, Celibidache, Bohm, Kleiber.
Per quelli che io ricordo, da Karajan in poi, penso che ad ognuno di questi grandissimi direttori potrei affiancare un aggettivo che etichetti la loro indiscussa personalità: Karajan il carisma, Bernstein la genialità, Celibidache la ricercatezza, Bhom la signorilità, Kleiber la classe, Maazel la simpatia, Metha l'energia, Abbado la raffinatezza, Muti la potenza.
Lungi da me giudicare anche uno solo di questi mostri sacri e l'aggettivo che mi sono permesso di affiancare al loro nome non è altro che il frutto di una mia sensazione personale, maturata nel tempo e grazie ai miei contatti professionali. Altri direttori, indubbiamente bravissimi, ve ne sono e ve ne sono stati, ma personalmente penso che questi siano da considerarsi il top.
Purtroppo ben poche sono le occasioni di contatto con personaggi di questo livello e, pur esistendo ottime professionalità in numerosissimi altri, può capitare che a volte ci si debba confrontare con tutto un sottobosco di direttori non certo di grande qualità, che catalogherei in diverse tipologie etichettandoli ironicamente per i loro difetti più evidenti.
Il noioso, quello che parla, parla e parla senza dire mai assolutamente nulla che possa portare beneficio alla realizzazione del lavoro d'insieme. Solitamente chi parla tanto lo fa perché non riesce ad ottenere il risultato desiderato attraverso la sola gestualità.
Il farmacista, quello che centellina all'esasperazione le dinamiche ed i colori fermandosi quasi ogni battuta ed ignorando che la musica, comunque, vive di sensazioni estemporanee, e che al momento del concerto tutto ciò che avrà curato così capillarmente lascerà posto esclusivamente alla sensibilità e alla disciplina esecutiva dei musicisti che ha di fronte.
Il permaloso, quello che si presenta con atteggiamento prevenuto, aggressivo e cattedratico per mimetizzare le sue insicurezze.
Il tranviere, quello che ha segnato sulla partitura i segni di fermata già programmati e durante le prove, anche se la parte in questione non presenta problemi, la ripete perché così aveva preventivato.
L'incerto, quello che deve sempre provare e riprovare tutti i rallentando o i cambiamenti di tempo perché non riesce mai a trasmettere gli impulsi giusti per farli naturalmente.
Il cinematografico, quello che durante l'esecuzione cura esclusivamente l'aspetto pirotecnico dei suoi movimenti fino a rischiare, nell'enfasi dell'interpretazione, di cadere dal podio.
L'ispirato, quello che dirige sempre ad occhi socchiusi, dilatando le narici nell'ampia respirazione e arrotondando i movimenti delle braccia dando al volto un'espressione di solenne partecipazione.
Il soporifero, quello che inizia i brani ad un tempo e, senza rendersene conto, col passare delle battute, lo rallenta sempre più fino quasi a raddoppiarlo.
Lo scolaretto, quello che seguendo già affermati direttori d'orchestra nelle loro prove, ne segna sulla partitura, con evidenziatori di tutti i colori, qualsiasi tipo d'osservazione, non solo musicali, riproponendolo pari pari anche se non ne esistono i presupposti.
Il burlone, quello che quando si accorge della tensione dell'orchestra racconta qualche barzelletta per cercare di sgelare l'atmosfera, ma quasi sempre non ci riesce.
Il sosia, quello che prende ad esempio un grande direttore scimmiottandone non solo le movenze e la gestualità sul podio ma anche gli atteggiamenti fuori dalla professione.
Il bambinone, quello che non dirige quasi mai e quando gli capiti sotto non gli sembra vero di potersi divertire facendoti sentire un videogioco per tutte le ore di prova che ha a sua disposizione.
Il pauroso, quello che va in affanno alla prima richiesta di qualche chiarimento da parte dell'orchestrale.
Eccetera eccetera...
Qui mi fermo, ma potrei sicuramente continuare ancora.
Forse con questa classificazione dei direttori d'orchestra ho un po' esagerato e non sono stato certamente gentile con alcuni di loro, ma dopo tanti anni di convivenza, a volte mal sopportata, permettetemi almeno una piccola e pungente rivalsa nei confronti di qualche rappresentante di questa illustre categoria.
Più volte mi sono chiesto: cosa può spingere un musicista a dirigere?
Perfino alcuni grandi solisti si sono lasciati attrarre da questa chimera e la loro immagine, conquistata nel tempo e dovuta alla loro grande classe di esecutori, in alcune occasioni è stata sminuita o inficiata amaramente da quest'esperienza.
Sì, deve essere proprio un mestiere difficile ma soprattutto particolare, dove non bastano qualità musicali e studio, ma dove occorre una predisposizione specifica che permetta di governare, con carisma e comunicativa gestualità, l'orchestra.
C'è chi è attratto da quest'attività per smodata ambizione, chi si sente un artista di caratura superiore e vuol misurarsi in prima persona con la grande musica, chi sente il fascino del podio e del successo esaltante, chi ne trae un senso di potere ma, per fortuna, c'è anche chi capisce in tutta coscienza che quello non è proprio il suo mestiere , ed è solo per questo che lo fa.
Un mio ex amico direttore, non certo di grande qualità, un giorno mi disse: “Sapessi quant'è grande l'emozione che provo quando dirigo l'orchestra e sento il suono uscire dal mio braccio”. A quel punto lo scrutai negli occhi cercando di capire se stesse scherzando o facesse sul serio. Faceva sul serio, ed allora mi sentii in obbligo di dirgli che cosa pensavo della sua professionalità, cosa fino ad allora non espressa per rispetto dell'amicizia che ci legava.
Persi un amico, ma tutto sommato ne fui contento perché almeno, così, mi sentii in pace con la mia coscienza di umile “operaio specializzato” della musica.

Emilio Benzi
Tratto da Tema con Variazioni, mensile dell’Orchestra Filarmonica di Torino, feb. 2000

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